martedì 17 novembre 2020

IL PROBLEMA DEL VETRO - di Marco Cotroneo

Sarà che sono abituato a un gesto pensato e deciso; è nel gesto il segno e dal movimento della mano che collegata alle articolazioni del braccio spinge la punta dello strumento in un movimento. Il segno è movimento tanto che lo stesso concetto di spazio-tempo può essere descritto da una linea tracciata sul foglio. Non è diverso dalla scrittura che permette una dettagliata analisi psicologica tramite lo studio della calligrafia. E così anche il di-segno, all’osservatore attento, suggerisce informazioni inequivocabili relative al carattere dell’artista. Tuttavia l’artista sapiente e cultore della propria disciplina è capace di compromettere l’interpretazione del fruitore gestendo il segno e decidendone la funzione emotiva. Una linea satura dal tratto esasperato può generare turbe mentre una linea sottile, pulita e uniforme nella continuità del tracciato trasmette sensazioni più rilassanti. Il trucco è quello di forzare il sistema percettivo amplificandone le informazioni tramite dissonanze di colore e tratto sincopato: la pittura informale ha dimostrato che sono sufficienti queste due accortezze tecniche per generare un importante coinvolgimento con “l’immagine” ma nella storia dell’arte non si è mai persa la necessità di esasperare tanto la narrazione, quanto la figurazione formale per rendere più stimolante l’esperienza visiva. Il gesto tuttavia rimane un’espressione intima, biologicamente unica tant’è che non esiste una tecnica universalmente riconosciuta per tracciare una linea o comporla in una forma. Il tipo di movimento, la posizione da tenere, la pressione del braccio sulla mano sono tutti fattori individuali relativi alla personale gestione del gesto e quindi del proprio corpo. La stessa qualità del segno è relativa a fattori fisici determinanti, e per quanto la nostra cultura greco-occidentale abbia nettamente separato le differenze fra mente e corpo, la dinamica cerebrale concerne la fisicità dell’artista. Le grandi differenze nella proposta di stile sono infatti relative allo stato mentale dell’operatore di immagini, alla condizione cognitiva oltre che emotiva sono conseguenziali, con i relativi contrari, i riflessi motori, i movimenti volontari e involontari, la stanchezza fisica e visiva. La proposta stilistica resta, al di là delle capacità di gestione del se, suscettibile alla condizione generale di vita. Cosi possiamo spiegare l’evoluzione del linguaggio artistico generale, appurando come ogni artista sia giunto a conclusioni varie nel corso della sua produzione divisa in periodi che scandiscono il ritmo stesso della vita. Resta inspiegabile l’operato di certi “creativi” che nel corso della propria esperienza artistica non hanno mai variato il proprio linguaggio. Lo stile, è una truffa! È la richiesta di omologazione da parte del mercato, che chiede un prodotto riconoscibile dal fruitore e immediato nella riconducibilità all’artista, ma se l’artista è uomo, è persona, non può trattenere il riflesso nel gesto della creazione. Dobbiamo leggere quindi il prodotto di questo pasticcere dell’arte come un linguaggio basico perché non ha subito alcuna modifica di percorso, alcuna influenza da parte del territorio o dell’ambiente circostante. Nel linguaggio, dobbiamo sempre tener conto che le interazioni né favoriscono la crescita e negare l’elaborarsi autonomo di un “periodo”, ancorandosi al “conosciuto” senza avere la curiosità di esplorare, denota una certa assenza di coraggio nell’azione del gesto e una folle metodica disconoscitiva. Entra in campo l’autenticità dell’opera che è nettamente legata alla riconoscibilità “della persona dell’artista” e questo non ha nulla a che vedere con la riconoscibilità dello stile. Il segno deve quindi essere strutturato, esercitato e accurato ma deve comunque lasciar trasparire l’intima esperienza dell’artista, il tic, l’ictus, la frenesia. Questo chiarisce le sofisticate differenze fra opera e disegno, oggetto, “prodotto”. Tutto questo è sintetizzabile nella trasparenza del vetro: quelle forme convesse di recipienti pieni, che attestano la propria presenza da un infinito scintillio di riflessi e dai quali si accede a un punto di vista trasformato, deformato, adeguato all’ampolla da cui i colori del fondo restano invariati, ma variano nel subire le influenze della luce che filtra dalle pareti del bicchiere rimbalzando dal contenuto alla stanza. Approcciare a questo tipo di figurazione è per molti un supplizio. Bisogna operare con un’osservazione ossessiva trasferendo l’immagine che deve consegnare la sensazione della trasparenza tramite la speculazione dell’effetto ottico. Diversamente, si può pescare nella memoria ma, per parafrasare De Chirico “è quando non hai un modello che casca l’asino”. Se è necessaria l’osservazione per la ripetizione, la stanchezza visiva e le difficoltà relative alla luce negli ambienti diventano responsabili fattori di co-produzione dell’opera ma a questo punto anche il gesto subisce le dinamiche della creazione. Il bello è implicito all’atto creativo e di conseguenza, l’artista che cerca il bello prima nella soddisfazione visiva, poi in quella psico-fisica per estensione del “risultato finale”, rischia di generare un elaborato lezioso, viziato e confutante della dinamica inconscia relativa alle proprie paure. E queste paure si manifestano nel negare la cancellazione del segno come unico atto di prosecuzione dell’opera, il segno resta, permanendo il medesimo orrore visivo di velatura in velatura. Il segno troppo pensato, rimpasta colore, stratifica grassi grumi fino a rendere la superfice illavorabile. Per approcciare alle difficoltà della trasparenza bisogna quindi mettere da parte ogni dubbio e operare diventando trasparenti. Il gesto deve essere fluido, i colori netti e puliti, i riflessi immediati e luminosi. Bisogna lasciar fluire quel tic, è necessario un approccio liquido per il problema del vetro, è necessario fermentare per poi farsi contenere.

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