martedì 17 novembre 2020

IL PROBLEMA DEL VETRO - di Marco Cotroneo

Sarà che sono abituato a un gesto pensato e deciso; è nel gesto il segno e dal movimento della mano che collegata alle articolazioni del braccio spinge la punta dello strumento in un movimento. Il segno è movimento tanto che lo stesso concetto di spazio-tempo può essere descritto da una linea tracciata sul foglio. Non è diverso dalla scrittura che permette una dettagliata analisi psicologica tramite lo studio della calligrafia. E così anche il di-segno, all’osservatore attento, suggerisce informazioni inequivocabili relative al carattere dell’artista. Tuttavia l’artista sapiente e cultore della propria disciplina è capace di compromettere l’interpretazione del fruitore gestendo il segno e decidendone la funzione emotiva. Una linea satura dal tratto esasperato può generare turbe mentre una linea sottile, pulita e uniforme nella continuità del tracciato trasmette sensazioni più rilassanti. Il trucco è quello di forzare il sistema percettivo amplificandone le informazioni tramite dissonanze di colore e tratto sincopato: la pittura informale ha dimostrato che sono sufficienti queste due accortezze tecniche per generare un importante coinvolgimento con “l’immagine” ma nella storia dell’arte non si è mai persa la necessità di esasperare tanto la narrazione, quanto la figurazione formale per rendere più stimolante l’esperienza visiva. Il gesto tuttavia rimane un’espressione intima, biologicamente unica tant’è che non esiste una tecnica universalmente riconosciuta per tracciare una linea o comporla in una forma. Il tipo di movimento, la posizione da tenere, la pressione del braccio sulla mano sono tutti fattori individuali relativi alla personale gestione del gesto e quindi del proprio corpo. La stessa qualità del segno è relativa a fattori fisici determinanti, e per quanto la nostra cultura greco-occidentale abbia nettamente separato le differenze fra mente e corpo, la dinamica cerebrale concerne la fisicità dell’artista. Le grandi differenze nella proposta di stile sono infatti relative allo stato mentale dell’operatore di immagini, alla condizione cognitiva oltre che emotiva sono conseguenziali, con i relativi contrari, i riflessi motori, i movimenti volontari e involontari, la stanchezza fisica e visiva. La proposta stilistica resta, al di là delle capacità di gestione del se, suscettibile alla condizione generale di vita. Cosi possiamo spiegare l’evoluzione del linguaggio artistico generale, appurando come ogni artista sia giunto a conclusioni varie nel corso della sua produzione divisa in periodi che scandiscono il ritmo stesso della vita. Resta inspiegabile l’operato di certi “creativi” che nel corso della propria esperienza artistica non hanno mai variato il proprio linguaggio. Lo stile, è una truffa! È la richiesta di omologazione da parte del mercato, che chiede un prodotto riconoscibile dal fruitore e immediato nella riconducibilità all’artista, ma se l’artista è uomo, è persona, non può trattenere il riflesso nel gesto della creazione. Dobbiamo leggere quindi il prodotto di questo pasticcere dell’arte come un linguaggio basico perché non ha subito alcuna modifica di percorso, alcuna influenza da parte del territorio o dell’ambiente circostante. Nel linguaggio, dobbiamo sempre tener conto che le interazioni né favoriscono la crescita e negare l’elaborarsi autonomo di un “periodo”, ancorandosi al “conosciuto” senza avere la curiosità di esplorare, denota una certa assenza di coraggio nell’azione del gesto e una folle metodica disconoscitiva. Entra in campo l’autenticità dell’opera che è nettamente legata alla riconoscibilità “della persona dell’artista” e questo non ha nulla a che vedere con la riconoscibilità dello stile. Il segno deve quindi essere strutturato, esercitato e accurato ma deve comunque lasciar trasparire l’intima esperienza dell’artista, il tic, l’ictus, la frenesia. Questo chiarisce le sofisticate differenze fra opera e disegno, oggetto, “prodotto”. Tutto questo è sintetizzabile nella trasparenza del vetro: quelle forme convesse di recipienti pieni, che attestano la propria presenza da un infinito scintillio di riflessi e dai quali si accede a un punto di vista trasformato, deformato, adeguato all’ampolla da cui i colori del fondo restano invariati, ma variano nel subire le influenze della luce che filtra dalle pareti del bicchiere rimbalzando dal contenuto alla stanza. Approcciare a questo tipo di figurazione è per molti un supplizio. Bisogna operare con un’osservazione ossessiva trasferendo l’immagine che deve consegnare la sensazione della trasparenza tramite la speculazione dell’effetto ottico. Diversamente, si può pescare nella memoria ma, per parafrasare De Chirico “è quando non hai un modello che casca l’asino”. Se è necessaria l’osservazione per la ripetizione, la stanchezza visiva e le difficoltà relative alla luce negli ambienti diventano responsabili fattori di co-produzione dell’opera ma a questo punto anche il gesto subisce le dinamiche della creazione. Il bello è implicito all’atto creativo e di conseguenza, l’artista che cerca il bello prima nella soddisfazione visiva, poi in quella psico-fisica per estensione del “risultato finale”, rischia di generare un elaborato lezioso, viziato e confutante della dinamica inconscia relativa alle proprie paure. E queste paure si manifestano nel negare la cancellazione del segno come unico atto di prosecuzione dell’opera, il segno resta, permanendo il medesimo orrore visivo di velatura in velatura. Il segno troppo pensato, rimpasta colore, stratifica grassi grumi fino a rendere la superfice illavorabile. Per approcciare alle difficoltà della trasparenza bisogna quindi mettere da parte ogni dubbio e operare diventando trasparenti. Il gesto deve essere fluido, i colori netti e puliti, i riflessi immediati e luminosi. Bisogna lasciar fluire quel tic, è necessario un approccio liquido per il problema del vetro, è necessario fermentare per poi farsi contenere.

domenica 15 novembre 2020

PEPPE DELLA VOLPE, CAUSTICO FUSTIGATORE DEL MONDO DELL’ARTE E DI TUTTI I VANITOSI E IMPROVVISATI SOGGETTI CHE VI OPERANO - di Pino Bonanno

E’ ormai un secolo che il sistema dell’arte abbia adottato criteri di divulgazione dell’arte attraverso metodologie, operatori attivi, strategie più o meno aggressive per imporre logiche tendenti sempre più a escludere l’autentico produttore dell’opera d’arte: l’Artista. Termine “odiato” da Peppe Della Volpe. Come “Creatore d’Arte”, preferisce dichiarare: “Mi metto da parte e osservo, rifletto sul pensiero che non smette di chi sceglie l'azione, il movimento e il tormento al torpore quotidiano di una certa idea di artista! La mia ricerca di senso, non ha prezzo. Non c'è dicotomia che determina la mia parentela o affinità a tutto quello che è il sistema dell'arte”. Con ciò, condividendo quanto sostenuto da Philippe Dagen in un saggio: “[…] l'impossibilità dell'arte nel mondo contemporaneo, imputando la colpa alla società odierna che riserva l'attenzione ai media che dichiarano la superiorità della facilità del raggiungimento del successo di massa e del guadagno, e a un presente - permanentemente futurizzato -. Ma non solo, anche gli artisti hanno le loro responsabilità: certi di non avere più un'audience minima, riducono il loro campo d'azione ai loro atelier, alle gallerie, ai curatori, agli organizzatori di eventi e premi, si allontanano dalla realtà, si autoconfinano al silenzio, rinunciando a ogni atteggiamento contestatario e di protesta. L'arte contemporanea diviene, così, narcisista, capitalista, lenitiva e silenziosa”. Per Della Volpe, “l’artista”, consapevole della sua precarietà, fragilità e manipolazione a cui è sottoposto, deve reagire in modo concreto ed efficace, nella forma e nella sostanza. Nella forma, tagliando ogni rapporto con tutti i “faccendieri” disonesti del mondo dell’arte (galleristi, critici, curatori, storici, organizzatori di eventi). Nella sostanza, imporre la propria visione nel modo di “produrre” arte, sia sul piano del linguaggio e sia sul piano della tematica da sviluppare. Ma il sistema dell’arte non è un centro unico di energia, non è un mondo autosufficiente; è un sub-sistema, che vive in rapporto con altri sistemi, esterni e superiori (meta-sistema). I confini non sono muri chiusi; essi hanno punti che fungono da porte e ponti attraverso cui passano materie, soggetti e informazioni. Controllare e difendere il confine significa vigilare che questi flussi siano vantaggiosi per le parti in causa. Per capire il funzionamento del sistema sociale dell’arte bisogna capire i flussi (scambi, interazioni, rapporti) che intercorrono con il metasistema in cui esso vive, cioè la società. Che cosa il sistema dell’arte produce per la società, ovvero, che cosa è considerata utile, vantaggioso, positivo, interessante per la società? La risposta è semplice, e tautologica: il sistema sociale dell’arte produce qualcosa che la società considera un valore, cioè il prezzo di mercato dell’opera. In cambio, la società remunera il sistema dell’arte con beni materiali e morali (denaro, prestigio, fama, ecc). D’altra parte, da quando si sono rifiutati i criteri tradizionali della artisticità, la società non è in grado di riconoscere né conferire i valori artistici. Esso deve affidarsi ai giudizi, commenti, interpretazioni, spiegazioni, teorie e discorsi degli “esperti”: filosofi, storici, critici, giornalisti, a direttori dei musei; funzionari dei ministeri; organizzatori e curatori delle mostre; ai galleristi, mercanti, mediatori e così via. Questi sono i veri o falsi produttori dei valori artistici. E a questo metasistema e a questi, spesso improvvisati produttori, rivolge da anni la propria attenzione critica e fustigante Peppe Della Volpe. Egli è nato ad Aversa (CE), nella seconda metà del xx secolo, e qui vive e lavora. Frequenta il Liceo Artistico della città, ma presto lo abbandona per ragioni famigliari. Comincia a produrre arte dal 1985, ma si rifiuta di mostrare a chicchessia i propri lavori. Nel 1989 inizia a divulgare le sue opere, presentandole in mostra e riscuotendo curiosità e interessi. Per tutti gli anni ’90 partecipa a mostre nazionali e internazionali e i suoi lavori vengono acquisiti dai collezionisti. Particolari meriti artistici gli sono riconosciuti da parte d’importanti critici e storici. Nel 2008, abbandona la pittura per dedicarsi con molto interesse alla scrittura. Scrive per diverse testate giornalistiche locali, affrontando sempre temi di arte e artisti. Nel 2017 torna con maggiore forza alla pittura, ma sempre astenendosi dall’esporre i propri lavori. E, forse, è questo l’aspetto che più incuriosisce circa la sua personalità, oltre a quello di prodursi in “feroci e ironiche critiche” al sistema dell’arte e a tutto il dilettantismo che lo affolla. Da qui inizia la sua provocazione di rispolverare i contenuti del gruppo rap “Onda Rossa Posse” degli anni novanta del “Mario Pesce a Fore”, recuperando l’idea originaria di Gennaro Cilento che chiunque potesse professarsi appartenente a tale identità senza rinunciare alla propria specificità artistica. “Mario Pesce a Fore” era la negazione del ruolo istituzionale dell’insegnante d’accademia, come del gallerista, del curatore, di tutti coloro che intermediavano l’alta formazione artistica deresponsabilizzando l’artista nel suo ruolo critico e intellettuale, era una rivendicazione generazionale. E Peppe Della Volpe fa sua, liberamente, questa idea di contestazione permanente di tutti i meccanismi mercificanti della produzione e divulgazione dell’arte. Diviene ironicamente atroce demolitore di ogni presunzione di valore dell’opera dell’artista e dall’esterno osserva ogni perversione del sistema dell’arte e il suo inesorabile declino verso l’annullamento del valore estetico dell’opera d’arte. Ma ancor più caustico e deluso lo è nei confronti dei produttori di lavori artistici i quali pur di avere un minimo di visibilità (per cosa ?) vendono la coscienza e la propria dignità, mendicando presso i magliari dell’arte, le gallerie affittacamere, gli organizzatori di eventi spregiudicati, una briciola di notorietà da offrire all’orgoglio dei propri famigliari e conoscenti. Ma, dal punto di vista della sua produzione artistica e della relativa divulgazione, come si colloca ? Verso la divulgazione delle proprie opere ha un rigido distacco e non è facile strappargli un minimo consenso per farle conoscere. Per la sua produzione, invece, dobbiamo riferirci ai diversi periodi di tempo e alle varie tematiche affrontate in cui contenuti e forma s’intrecciano per dar senso a ciò che propone, intanto a se stesso. Però, a bene osservare, sembra che privilegi sempre il tema, il contenuto rispetto allo stile linguistico. Gli argomenti più interessanti artisticamente sono quelli in cui prevale la figurazione della donna, sia come soggetto violato e offeso e sia per manifestare un forte erotismo, spesso respinto da parte di una società bigotta, bacchettona che sembra non voglia prendere atto del percorso storico di questa tematica. Quando si parla di erotismo è quasi logico pensare al sesso, che all’erotismo è strettamente legato; ma le differenze ci sono e sono fondamentali: soprattutto, occorre imparare a conoscerle per capire le diverse modalità attraverso le quali l’erotismo si esprime, dando troppo spesso luogo ad ambiguità, malintesi e dispiaceri. Infatti, l’esperienza di Della Volpe è estremamente indicativa. Ogni volta che propone i suoi soggetti alle gallerie per realizzare un evento espositivo, riceve sempre una risposta negativa, in quanto, questi “operatori” pensano che questi temi ancora rimangano tabù nei confronti del pubblico. Evidentemente, disconoscono la storia dell’arte dei cui temi si è sempre “nutrita”. Ogni arte può essere erotica: “Il primo ornamento che sia stato ideato, la croce, era di origine erotica. Esso fu la prima opera d’arte, la prima manifestazione d’arte che il primo artista scarabocchiò su una parete, per liberarsi di una sua esuberanza. Un tratto orizzontale: la donna che giace. Un tratto verticale: il maschio che la penetra” (A. Loos). L’opera d’arte, come nota Camille Paglia, è un territorio attraversato dalle fluttuazioni di energie sessuali che provocano movimenti, incroci, ingorghi, contaminazioni. L’artista vive, talvolta, le sue emozioni e i suoi percorsi espressivi come elaborazione del desiderio, che diviene creazione: nella quale opera realtà e visionarietà convivono liberamente. Il piacere è l’energia stessa dell’atto creativo, volendo esistere e transitare senza vincoli, in quanto “la natura del desiderio è di essere senza limiti” (Aristotele). Il piacere è la base della vita stessa: “E’ l’unica forza abbastanza possente da opporsi alla potenzialità distruttiva del potere (…). Senza piacere non ci può essere creatività” (A. Lowen). Ma se l’essenza dell’arte “è nel piacere, una vita finalizzata al piacere diventa essa stessa opera d’arte. E ancora, se l’arte è un valore, anche il piacere lo sarà” (M. Calvesi). L’artista, come i seduttori di ogni genere, ha dovuto, nei vari secoli – celare, velare, mascherare, occultare – lo sguardo palpitante della propria espressione, agli sguardi censori delle inquisizioni: religiose, politiche, sociali, culturali. Peppe Della Volpe sa che l’essere umano, nella sua complessa dimensione erotica, ha la possibilità di rappresentare sé stesso come “normale” o come “trasgressivo”. Ognuno ha il diritto/bisogno di allontanare la dimensione falsata del benessere erotico-sessuale, infatti, vivere l’erotismo significa sentirsi sereni e capaci di rappresentare sé stessi e in cui trovare indicazioni importanti nell’esperienza trasgressiva del piacere a prescindere dal livello di riferimento. Ognuno ha un qualche “feticcio” a cui mira per amplificare l’espressione del piacere. Non per questo ha a che fare con la dimensione feticistica di tipo patologico, ma più semplicemente trova la giusta dimensione nell’esperire la rappresentazione di sé. "Sesso e arte sono la stessa cosa" diceva Pablo Picasso. "Tutta l'arte è erotica" affermava l'architetto Adolf Loos nel 1908, una frase poi attribuita erroneamente a Gustav Klimt. Per Peppe, l'erotico è una misura tra l'inizio del nostro senso di sé e il caos dei nostri sentimenti più forti. E' un senso interiore di soddisfazione al quale, una volta che l'abbiamo sperimentato, sappiamo di poter aspirare a un senso di bellezza ed estasi. E’ convinto che l’erotico è potere, lo è sempre stato e l’arte ne è la prova. Tutta la storia dell’arte ne è permeata. Partendo da circa 37 mila anni fa, da quando in una grotta a sud della Francia un artista si spinse a scolpire nella roccia la prima rappresentazione della vagina della storia. Altro esempio di arte erotica risale al 20 dopo Cristo ed è la scultura del satiro Pan, mezzo capra e mezzo uomo, che fa sesso con una capra. Uno dei quadri che ispira erotismo è la Venere di Tiziano. Realizzata nel ‘500, in cui l’artista rappresenta la dea nuda, distesa sul letto e con la mano a coprire il pube. Un esplicito messaggio sensuale su qualcosa di proibito. Giulio Romano realizzò delle vignette pornografiche. Lo scopo era di mostrare tutti i modi per fare del sesso. Egli fece dell’erotismo una delle sue chiavi artistiche. In “I due amanti” dipinge desiderio e perversione. I due giovani sono sul letto, intenti con dei preliminari, mentre vengono spiati da un’anziana curiosa. “L’origine del mondo” è un dipinto di Gustave Courbet e rappresenta i genitali femminili con uno stile pittorico molto realista. Il quadro ha ancora oggi il potere di scioccare. Per esempio, nel 2009, alcune copie di un libro, raffigurante “L’Origine” in copertina, sono state sequestrate dalla polizia a Braga, in Portogallo, che le contestava come “pubblica pornografia”. Oppure, ancora, “L’Amicizia” di Egon Schiele “Nessuna opera d’arte erotica è una porcheria, quand’è artisticamente rilevante, diventa una porcheria solo tramite l’osservatore, se costui è un porco.” (Egon Schiele). L’intento di Peppe Della Volpe, nelle sue “rappresentazioni” è anche quello di far emergere il lato grottesco dell’erotismo o della sessualità esplicita, smontandone al contempo gli stereotipi più radicati. I suoi lavori di genere parlano di sesso con forza e “sincerità, abbattendo i tabù che ancora oggi – incredibilmente – circondano certe tematiche. Grazie all’ironia e al “surrealismo”, inoltre, l’artista riesce a imporre il suo punto di vista artistico, in un mondo (anche quello social dei media) che lascia circolare liberamente immagini di una violenza inaudita e poi oscura gli artisti per un’immagine in cui si mostra una donna nuda senza una postura provocante. Se c’è un’osservazione critica da sollevare nei confronti delle opere di Peppe Della Volpe, è quella di privilegiare sempre e solo l’aspetto tematico rispetto a tutto l’impegno che si porrebbe di fronte al linguaggio stilistico-formale. Infatti, assistiamo a un ricorso eccessivo alla grafica di primo impatto e all’uso di colori non sufficientemente “maturi” dal punto di vista dei loro impasti e valori tonali. Ma è un’osservazione che può sopportare, in quanto data con assoluta amicizia.

sabato 14 novembre 2020

QUANDO IL RAPPORTO FRA PADRE E FIGLIO VA OLTRE LA DIMENSIONE DELL’AFFETTO - CARMELO COTRONEO: ARIA E VENTO IN ESPANSIONE COME UNA BOLLA di Marco Cotroneo

Il testo che segue analizza il lavoro di Carmelo Cotroneo comparando tre periodi fondamentali che tessuti da un filo continuo hanno condotto l’artista alle proposte odierne più mature. È un punto di vista estremamente vicino essendo la visione del figlio che conoscendo le dinamiche del processo creativo, offre un’argomentazione attenta, personale e utile alle necessità documentaristiche. Affacciandosi sullo stretto nasce l’artista che ancora ricorda gli odori dei campi e la frescura delle querce mentre scruta l’Etna al vento di scirocco: l’imprinting delle radici contribuirà alla formazione per un atteggiamento fondamentale per la conquista di una vera identità artistica. La completezza della sua formazione si verifica nella spontaneità del tratto, nella gestione degli spazi e delle anatomie oltre che nelle competenze concettuali. Le opere giovanili sono dichiarate e identificabili come “I MOSTRI”, figure mostruose, antropomorfe, slegate dalle convenzioni che ci si aspetta dalle accademie ma che rispondono chiaramente sulla proposta figurativa: per quanto sia di impronta espressionista, collocare Carmelo Cotroneo in un contesto avanguardistico diventa superfluo se non del tutto inutile perché il suo linguaggio si manifesta sempre in forme autonome e assolutamente personali. In questo ciclo di opere notiamo un atteggiamento carnale nei confronti della tela di iuta che viene sepolta da grassi strati di colore a olio. Seppur la proposta sia di forte impatto emotivo, non può essere letta in chiave autobiografica se non conoscendo profondamente l’artista. I mostri si contrappongono al mondo ostile nei confronti dell’arte e delle scelte autonome, sono la risposta giovanile alla richiesta di omologazione e diventano il “brutto” che sfida l’arroganza del bello nella concezione ultrapopolare che addita il mostro. Il supporto si piegava in alcuni casi per il peso del colore e per la qualità artigianale dei telai. La figura è dettagliata nei particolari di denti amorfi e mani sporgenti con dita rigonfie, artigli; agghiacciante, si lascia osservare dal fruitore e consapevole ne restituisce lo sguardo in atmosfere che, nonostante la cupezza degli ambienti, trasmettono un forte calore, aria bruciata e violenta che restituisce luce gestita col segno sapiente del colore pulito in dicotomia con la sbavatura voluta. Restano evidenti i segni delle spatole, le sovrapposizioni del colore che diventa come un laminato bronzeo, le croste che restituiscono un’esigenza tattile che spesso si ritrova nell’opera di Carmelo Cotroneo. I contorni dal nero saturo respingono la forma annullando la linea che diviene luce bruciata e le figure fondono nella sovrapposizione delle sagome diventando tutt’altro. Seguiranno opere dall’interiorità celata che riproporranno quei paesaggi impressi dai luoghi del passato, querce, vallate e scorci marini sempre lontanissimi. Il distacco dal mostro è naturale, coerente con l’uomo che cresce e allontana il gusto per la polemica; non essendo più necessario emanciparsi o rivendicare il proprio essere, Carmelo Cotroneo inizia un viaggio introspettivo ancora in fase di scoperta. Nonostante il suo primo incarico da insegnante di discipline pittoriche a Pozza di Fassa, di quel periodo nulla verrà messo su tela. I suoi paesaggi resteranno fedeli all’emotività mediterranea, ai colori forti e caldi generati dal territorio alle civiltà che lo hanno vissuto. Resta fermo ancora il legame col figurativo riconoscibile, ma le chiome degli alberi esplodono in onde e punti di colore: pennellate veloci come tagli leggermente ricurvi e campiture di tono su tono frammentate dal movimento dell’erba in preda al vento per compiere il volere compositivo dell’artista. L’immagine si ferma in uno scatto fotografico, è quel momento nel quale il cumulo di foglie esplode in aria diffondendosi a bolla nello spazio. Carmelo ferma la composizione nella massima espansione della bolla, un istante prima che scoppi; la natura partecipa coinvolgendo ogni sua parte per la sola restituzione dell’equilibrio dato dal movimento e dal colore. Il suo grande amore per la fotografia gli ha permesso di conservare momenti e luoghi che giacciono non troppo silenti, sempre, nel suo animo. Varia e vasta è la sua produzione di paesaggi ma per la lettura complessiva dell’operato artistico di Cotroneo è necessario precisare il suo totale distacco da qualsiasi pretesto commerciale o speculativo e, anche se fa paesaggi non è un paesaggista e se fa ritratti non è un ritrattista. Il suo paesaggio non ha mai collocazioni “reali” né il suo ritratto che, pur essendo estremamente somigliante, incarna una personalissima tendenza aulica e il fiore non è mai un fiore, il sentiero è solo erba spinta dal vento e le nuvole sono l’incombente boato del tuono. Aria e vento in espansione come una bolla, è questa la pittura di Cotroneo. Coinvolgente “La Luna Nel Prato”, il primo stacco significativo dalle solite proposte. La luna cade nel prato esplodendo in spicchi e stravolgendo il paesaggio violentato dal cataclisma metafisico, viene all’uomo in altra forma e la natura che scontra se stessa non trasmette alcun orrore, anzi, la luna conserva la poetica dell’astro pur diventando un proiettile micidiale e distruttivo. Il prato implode, si piega come per accogliere il colpo. La caduta è estremamente violenta perché l’effetto è sconvolgente, ma è attutita, elastica. Tutto converge verso il centro, il colore è infuocato, ma si contrappone con eleganza sui verdi e il freddo delle lontananze. Le opere sono monumentali, a volte più tele venivano unite con grande effetto emotivo. La luna si frammenta in forme definite dagli strappi di un globo e le forme conquistano una ritmica compositiva dal respiro autonomo anche senza il paesaggio che le accoglie. La proposta astratta in Carmelo aveva ancora necessità di approfondimento e di ricerca soprattutto interiore. Con coraggio affrontava il tema del figurativo schermandosi con la rivendicazione poetica che nel suo percorso ha tutto il diritto d’essere. È amante della poesia Carmelo Cotroneo, legge Neruda e super classici del genere, si gratifica nel vedere il mare o scalando un albero o aprendo un’anguria per scoprirla matura. La luna è il taglio di Fontana, la scatoletta di Manzoni, il mostro. Entra nella tela passando per la pittura, offrendo nuove possibilità di linguaggio. Strappa il paesaggio sovrapponendosi al passato. Resistente sarà tuttavia l’attitudine al riconoscibile. In “Dove Cantano le Sirene” si instaura un rapporto morboso con l’immagine della donna che, inizialmente è esclusivamente femmina poi diventa sirena. È femmina nell’idea di Carmelo e si manifesta da un profondo immaginario erotico con intenzioni mai realistiche, ma più che altro vere nel percepire l’atto della provocazione, la lussuria tramite la posa; donne da copertina, di una copertina ricontestualizzata, lasciata galleggiare nel campo visivo per essere ridotta tramite una mera collocazione di genere. Ma la figura non è abbastanza. La luna rientra nell’opera e tramite l’elaborazione creativa diventa la coda di un pesce, un mostro. Quei paesaggi marini di acque fatte d’erba, di schizzi che sono come virgole e punti d’ogni colore, quei cieli e quelle lontananze che tornano a essere squarciate dal taglio dell’irreale, del sogno, generano sirene in balia della bolla di Cotroneo. Corpi rilassati, adagiati nel colore, sommersi in una personalissima idea d’acqua: l’aria! Quel respiro, quel vento interiore che si smuove alla vista del mare. Il sospiro del viandante, il ricordo di quella casa nei campi dove lontano giaceva il mare. E la sirena diventa il tramite che ingloba il passato, si personifica in un mostro altro per raccontare di sé, alle spalle dell’artista, a sua insaputa, al primo sospiro dopo aver visto il mare, l’aria. Nel corso di questa produzione, la sirena diventa parte integrante della scena compositiva, ogni squama, ogni schizzo è protagonista fino a perdersi nel movimento del racconto ancora fotografico. Della sirena nulla verrà restituito, né l’odore del mare né il terrore del mostro. Dopo un lungo periodo tormentato nel quale il paesaggio rientra nelle sue tematiche, l’astratto prenderà il sopravvento inaspettato e stravolgente. Nel frattempo la produzione di Carmelo diventa incessante e le opere sono tutte di un gusto estremamente gradevole, soprattutto nella scelta dei colori non troppo Aggressivi, ma la continua sovrapposizione di proposte rendeva un tessuto materico indice di ricerca ossessiva e sofferente. Inevitabile lo strappo! Ritratti finiti, paesaggi, luoghi e situazioni su tele depositate e accatastate nel suo studio cadono alla mercé dell’atto creativo. Come un taglio le prime forme percorrono la tela sezionando le immagini. Si moltiplicano percorrendo i contorni dei vecchi segni prolungandoli all’infinito. L’intreccio delle linee diventa un campo modulare che l’artista plasma con l’attitudine al nascondimento, ma poi, si stravolge tutto. Le forme in quanto tali hanno tutte lo stesso connotato intellettuale. Nascondimento, frammentazione e metamorfosi, l’ennesima bolla! Questa volta è l’opera a espandersi, è il segno intrinseco che prende vita nello spazio della tela, mai oltre i suoi margini. Immagini dal colore forte con prevalenza di rossi che si stagliano con estrema dissonanza sui tagli blue e verdi. Diventa una forma di scrittura che pesca in ricordi atavici e mediterranei. Come gli Egizi venivano pervasi dal medesimo calore e spinti dagli stessi venti, chi vive le coste del mondo antico è costretto a generare le forme e le immagini registrate nella propria genetica. Cosi Carmelo produce quegli accostamenti di colore che ritroviamo nelle piramidi, delinea le forme come si fa con le lettere riscrivendo un alfabeto ancora personale e stravolgente. Gli accostamenti fra colori caldi e freddi sono ormai parte tecnico-espressiva integrante dell’artista. Con lunga esperienza, padroneggia la pittura tonale, la velatura, il materico e fonde tutto con atto spontaneo avendone assimilato profondamente l’essenza. L’utilizzo del colore sapiente e generoso nella stratificazione è ormai appurato sulle competenze di Cotroneo, ma la scelta delle immagini è un mondo ancora da trattare e chiarire. Carmelo continua un progetto forse innato e relativo alla sua predisposizione nei confronti della metamorfosi che mette in scena anche sul reale: essendo un riflessivo, la sua idea e la sua grinta subiscono variazioni continue, sempre inclini alla modifica di percorso. “Frammenti in Equilibrio” segna definitivamente la pittura di Carmelo Cotroneo offrendo una proposta astratta inaspettata che risponde a tutte le codifiche di una lettura “moderna” delle opere. Il taglio, il nascondimento diventano superflui, entra in campo la considerazione sulla forma e diventa astrazione pura perché è proprio dalla realtà che si prendono le distanze. Ma così come in una vera esplosione diventa irriconoscibile l’oggetto distrutto, la frammentazione di Cotroneo permette la mutazione (nel sogno) della forma che rimane reale ma astraendosi risulta irriconoscibile. È tutt’altro che informale, piuttosto, è anti-formale e così come per certi gabbiani in volo che in passato fotografava, le sagome si sovrappongono generando nuovi esseri. Le sagome vengono composte però cercando di annullare l’effetto pareidolico che culmina nella non riconducibilità all’immagine. Il fruitore cerca di ricostruire l’oggetto scomposto perdendosi nei frammenti e nulla si definisce se non il caos fermo di un istante. La bolla si espande in tutta la profondità del tono, nella percezione della prospettiva e nel movimento degli strappi non troppo dissimili agli spicchi di luna o alle sirene sferzate dall’acqua, dall’aria. Il gioco nello stravolgimento della figura insiste allontanandosi dall’informale e spingendosi verso il (ri)compositivo e la poetica della frammentazione insorge nel determinare le possibilità ricostruttive conseguenti “all’esplosione dell’oggetto”, ma lo scherzo dell’artista conduce verso il fallimento, verso l’impossibilità di riconoscerlo. Pura metamorfosi, una mutazione interna dell’opera che cambia e assume forma cangiante nel fruitore che, non giungendo mai alla totale conoscenza, innesca dal principio il processo percettivo dell’immagine ogni qual volta che la guarda. È la mutazione in mostro, la provocazione e forse, il desiderio di stravolgimento che diventa evidente nella proposta stilistica, per il rivelarsi nell’artista dell’uomo che poi è il basamento portante del concepimento artistico.

lunedì 9 novembre 2020

DUŠAN DŽAMONJA – Artista titanico, plasma il vuoto, il silenzio, il tempo per dialogare con l’uomo : Luglio 2006 - Pino Bonanno


L’artista Dušan Džamonja (nato nel 1928, vive fra Zagabria, Vrsar e Bruxelles) è uno degli artisti più famosi d’Europa. In più di 50 anni di attività artistica, ha esplorato, con curiosità intellettuale e vigore esistenziale, tutte le potenzialità dell’espressività scultorea, attraverso un uso personale dei materiali e le loro implicazioni plastiche. A testimonianza della sua genialità e valore artistico universalmente riconosciuto, si sono espressi grandi critici e storici dell’arte: Giulio Carlo Argan, Giuseppe Marchiori, Pierre Restany, Roger Pierre Turine, Hans Neuburg, Hainz Fucsh, Vladimir Maleković, Danièle Gillemon, France Borel, Slavica Morković, Irina Subotić, Igor Zidić, etcc… Tutti questi critici, analizzando il percorso creativo di Džamonja, attestano unanimemente la sua straordinaria capacità di parlare all’uomo attraverso il “rimodellamento” dei materiali. Ma è egli stesso a chiarire, in una intervista rilasciataci per l’occasione, il suo pensiero sulla natura dell’arte: “Essa deve avere, nel suo farsi, la possibilità di sintetizzare psicologicamente 3 aspetti – l’idea, il materiale, il processo elaborativo”. Nella consapevolezza che ognuno di questi 3 elementi ha diversi valori da sostenere. L’idea, come pilastro strutturale dal punto di vista espressivo e simbolico; il materiale, in quanto confronto fra natura organica e inorganica (il legno con il metallo ), ma anche come gesto simbolico (il legno che rappresenta la vita, torturato dal metallo, i chiodi o le catene); il processo elaborativo, come momento di decantazione ed esaltazione dell’idea per scoprire i percorsi interiori dell’uomo. L’intuizione, la sensibilità, il rapporto con i processi evolutivi dell’uomo all’interno delle diverse società, fanno sì che l’artista possa avanzare le proprie istanze creative con libertà espressiva e forza evocativa. Da questi elementari, ma essenziali, valori parte Džamonja per percorrere la strada della conoscenza dell’uomo espressa mediante tutta la rappresentazione simbolica che la storia ci mostra. Rappresentare, in ogni modo, la tortura cui l’uomo è stato sottoposto nel tempo, significa per il nostro artista, sottolineare il valore simbolico della sofferenza del genere umano, che in vari momenti assume il grido come voce universale per comunicare. E la scultura, l’atto creativo in genere, che realizza porta con sé sempre il messaggio simbolico della dialettica fra la vita e la morte, fra ciò che vive e perdura e ciò che si annulla e si trasforma in pensiero passivo, in attesa dell’estasi spirituale. E’ proprio questo atteggiamento profondamente riflessivo circa il “fare” creativo che ha fatto dello scultore croato uno dei massimi esponenti internazionali dell’arte, sempre in sintonia con le più avanzate ricerche plastiche. Egli è tra i pochi scultori contemporanei che oltre a non avere paura del monumentale, cerca continuamente la sfida con lo spazio, gli orizzonti, l’aneddoticità della realtà con cui devono confrontarsi, oltre che dialogare, le sue opere. Ha progettato, fin dagli anni ’50, grandi gruppi scultorei di notevoli dimensioni i quali sono diventati immediatamente parte del paesaggio, anzi, riflettendone sulla propria superficie, perfino dentro lo spirito concettuale, i rilievi, le valli, e gli orizzonti. Oppure, ha collocato in grandi spazi urbani, usando una particolare sensibilità architettonica, le sue sculture per ridefinire il sito, la cultura e la storia stessa del luogo. Come quando più recentemente, nella primavera del 1998, ha collocato un gruppo di sculture nella piazza Vendôme a Parigi. Solo uno scultore come Džamonja, con la sua forza eleborativa dell’idea cosmica, poteva raccogliere e vincere la sfida di misurarsi con un ambiente arcitettonico complesso, classico e storicamente rappresentativo. Con l’idea di dover creare “un luogo dentro il luogo”, un sistema simbolico di forme e volumi capace di rivitalizzare, con rinnovata energia, tutto lo spazio attorno, ha realizzato una autentica osmosi tra preesistente e nuova realtà creativa da cui ne è scaturito un brillante e dinamico linguaggio gestuale, fatto di linee e masse, interno ed esterno, luce ed ombra, prospettiva e introspettiva, riflessione e domande. Džamonja è anche questo. L’artista capace di sommuovere le idee per riscrivere gli elementi primari della riflessione: Perché? Come? Quale il senso? Che cosa cercare? In tutta la sua vita ha sempre saputo mantenere vivo il suo straordinario intuitivo senso per il monumentale, per l’opus architettonico, adattandolo all’evoluzione del linguaggio e alle esigenze espressive della scultura moderna. Così come, a loro modo, Moore, César, Brancusi. Ha avuto, soprattutto, uno speciale rapporto e visione verso il “monumentale simbolico”, in cui con grande maestria ha trasceso il particolare, l’elemento minimale per cogliere sempre “l’umana universalità” dell’idea. “ Un monumento è prima e più d’ogni altra cosa un luogo, un luogo dentro il luogo” e Džamonja di questa convinzione ne fa la sua magia permanente. Un luogo (il monumento, la scultura) in cui i segni, i significati, fluttuano sulla materia; segni che imprimono il senso, indicano stretti e vigorosi spazi di luce che filtrano e modellano la forma, ne fissano la durata più che la dimensione. Le sue sculture sono, prima di tutto, un progetto di stile che ama indagare la materia e ama rispettarne la consistente presenza. Sono sculture poderose che vibrano nell’aria, composizioni che dialogano con la luce e le sue voci interiori, come si fa con la memoria, visiva e mentale. Tali opere possono essere anche viste come intuizioni mentali, come folgorazioni di prima alba, ma sempre progettate dopo una lunga e sofferta ricerca formale dei materiali e dell’estetica interiore. Il suo lavoro si definisce nella palpitante e spasmodica “manìa” di lavorare lo spazio, inglobarlo in una forma articolata, con un centro e una superficie periferica, con un significato esplicito e uno più profondamente simbolico. E’ una scultura di “paesaggio”, nel senso che non ha un solo punto di vista né un centro focale, che parla del concetto e delle passioni. Può anche essere vista come metafora della vita, ma è soprattutto “ritmo”, voce che sussurra e grida per scuotere o rassicurare, per “dire” e attendere. Non nel senso della necessità di narrare per opportunità pedagogiche, ma per bisogno di testimoniare, ricordando, contro quali forze estranee alla sua natura l’uomo è chiamato a lottare e difendersi. Le forme a cui fa principalmente riferimento sono colte dalle simbologie cosmiche, proprio perché egli crede che solo nella loro rappresentazione possa realizzarsi l’idea della perfezione. Esse consistono in sfere o forme ovoidali, talvolta interamente sviluppate e certe altre, invece, segmentate, spezzate in cui il nucleo centrale è visibile ed esplorabile anche attraverso un dichiarato ritmo orbitale. Egli cerca sempre, in queste forme, l’armonia e la continuità fra interno ed esterno, fra intenzione e svelamento, fra unità (particolari) e infinito. Egli sa bene che la concezione dell’universale o del cosmo può essere espressa soltanto simbolicamente. Ma sempre separando il simbolico dallo spirituale, affronta con grande chiarezza espositiva l’idea che ogni simbolo è espressione del pensiero e che ogni concezione elaborativa e creativa implichi simboli. Per questo, egli incorpora i simboli nelle sue forme scultoree, le quali sono sempre molto precise ed elaborate con grande conoscenza delle possibili infinite variazioni che gli sviluppi formali offrono. Queste forme džamonjane sono realizzate con legno e chiodi, in una prima fase della sua ricerca, poi da solo chiodi saldati in testa per rendere cava la parte centrale delle opere e congiungere, appunto simbolicamente visibile, l’interno con la superficie, l’unità con l’infinito, l’intento con l’universale. Successivamente, attraverso la sostituzione del legno con l’argilla, realizza delle sculture in cui ottiene delle forme con l’uso delle catene metalliche. Altro elemento simbolico che rimanda all’idea dell’ arroganza e sopraffazione umana. All’idea dell’asservimento e della schiavitù. Come pure, l’uso dei chiodi implicava simbolicamente l’idea di un atto che congiunge, collega, tiene insieme, oppure, il più antico gesto della violenza. Con questi materiali e queste tecniche, l’artista, come altri grandi artisti del suo tempo, Brancusi o César, afferma a suo modo la necessità di collegare e realizzare la scultura con le tecniche più antiche, primitive come espressività rinnovata della modernità. E con ciò, ribadire le antiche e mitiche origini della scultura. “L’arte commemorativa per eccellenza diventa commemorazione di se stessa e delle sue passate glorie…Essa ha un orgoglioso senso dell’arcaico e del mitico il quale corre in parallelo alla sua modernità e la completa. La scultura può così alzarsi in piedi contro i radicali cambiamenti imposti dalla tecnologia industriale” (G.C.Argan). Le sue opere sono state concepite, con la memoria genetica di chi ha profonde radici mediterranee, con forme che vanno “frequentate” tattilmente, prima ancora che visivamente. Ciò vuol dire che tutto lo sviluppo simbolico delle forme ha implicazioni naturali, più carnali, quasi di vicinanza umorale, con l’irresistibile istinto di toccare e stringere l’opera. E quando noi ne accarezziamo le ruvide superfici, accostiamo le sensazioni al bisogno di libertà e di spazio, a qualcosa che emana storia e mistero, vibrazioni molecolari e movimento orbitale. Dall’interno delle sue strutture, se ne abbiamo le capacità, possiamo sentire la voce delle sue creazioni che parla del suo mare, dei suoi venti, delle sue passioni. Forse per questo, G.C.Argan definisce Džamonja, nel 1977, come un artista “contemplativo”, distinguendolo dai “concettuali”. Proprio perché attribuisce all’artista croato la capacità di andare oltre il simbolico, riuscendo a sintetizzare un mondo interamente alla nostra portata e con cui relazionarci intimamente. C’è molto spazio e molta aria nelle sue opere e scolpire, modellare, l’aria è cosa assai improbabile: c’è un’aria di Moore, un’aria di Giacometti o, un’aria di Brancusi o Pomodoro e c’è una specifica morfologia aerea per il nostro artista. Ma dare forma, oltre che idea, al vento e alla luce che fasciano le strutture del corpo solido, è un progetto e impresa non soltanto naturalistica, è corposo impegno stilistico, sintesi espressiva, qualità estetica rari e unici. C’è nel lavoro di Džamonja grande rispetto per l’armonia e l’estetica simbolica, la “misura” del monumentale, il taglio della sua visione del mondo. Tutte le sue opere amano il silenzio, la raccolta verità dell’esistenza interiore, come quando nello spazio in cui colloca i suoi gruppi scultorei, si ascolta la voce dell’aria, il sussurro delle sue idee. Questo è anche il Mediterraneo a cui rivolge lo sguardo quando al mattino spalanca le riflessioni dal suo “parco sculture” a Vrsar (Istria), in cui si trova la sua casa-studio. Questa è la luce, la brillante armonia luminosa che spira da oriente. Figura preminente del modernismo, “Džamonja è per la Croazia, come lo è stato per l’ex Yugoslavia, quello che Henry Moore era per l’Inghilterra, Giacometti per la Svizzera”. Questo secondo l’opinione del critico Danièle Gillemon, ma anche l’opinione diffusa fra gli esperti internazionali dell’arte. Ma più degli artisti citati, l’artista croato possiede una visione cosmica dell’opera d’arte che non è comune ad altri. All’interno del suo lavoro si trova la dialettica dell’uomo e dell’esistenza, infatti, è unico nel collegare le più tormentate e magmatiche viscere della terra con il dramma quotidiano dell’uomo, il quale, attraverso le sue rappresentazioni estetiche, prende forma e si concretizza in un pensiero forte, al di là di ogni occasionale verità. Verità che suggerisce all’artista la forza di non arrestarsi davanti alle prime rivelazioni esteriori, ma cercare incessantemente il lato in ombra dell’esistenza dell’uomo. Quell’oltre che sempre è in noi e sempre amorfo tarda a prendere forma per liberare energie nuove. L’alchimia di Džamonja consiste nel non accontentarsi mai del già rivelato, ma cosciente che c’è sempre un altro mistero di fronte alle cose note, conosciute. E’ il mistero della trasformazione della realtà nell’altra dimensione creativa ed estetica. Il mistero di non sapere con certezza cosa si nasconde dentro le cose che osserviamo e in quale relazione queste cose sono con il pensiero, con la riflessione, con la fantasia. Džamonja esplora continuamente questi percorsi e li confronta con l’evoluzione delle sue forme e delle tecniche che via via adopera. Così facendo scopre che in ogni forma se ne nascondono altre e altre ancora e il pensiero, il bisogno della rivelazione, concorre a rimodellare la realtà nel modo più ampio e veritiero possibile. E la tecnica, il processo elaborativo, la scelta attenta dei materiali servono primariamente a determinare l’estetica di ogni opera, la quale, come una passione o forza inarrestabile parte dall’interno della forma (che è l’interno dell’artista) per completarsi negli strati superiori, nella struttura di superficie, con una energia fluida in grado di coinvolgere lo spazio e l’aria circostante. Ecco la grande magia e intuizione dell’artista cosmico, dell’artista che guarda la natura come un sistema unico universale col quale dialogare, pensare e immergersi totalmente. Attraverso le sue opere noi possiamo cambiare la nostra dimensione fisica e materializzarci in un altro sistema stellare, un altro pianeta. Oppure, o anche, entrare in un immaginario e “poetico mondo di sogno” le cui dimensioni, prospettive estetiche, suggerimenti sono abilmente proposte dal nostro artista.