La mostra “Reflex”, a cura di Luca Massimo Barbero, tenutasi da Giacomo Guidi Arte Contemporanea – Roma, dal 10 Ottobre al 24 Novembre 2012, consente di riprendere alcune riflessioni e considerazioni a proposito di Ian Davenport (Kent, 1966), ex enfant prodige della Young British Artists generation e oggi maestro della nuova corrente astrattista.
Cresciuto alla “scuola” di Motherwell, Barnett Newman, Rothko, scandisce la perfetta sintesi di simboli e visioni, riorganizzandoli all’interno delle sue opere e, partendo dai White Paintings di Robert Rauschenberg, evolve verso organici flussi di colore manifestati con un travolgente ritmo in cui è centrale la gravità e la forza degli elementi cromatici.
Le sue opere, nella loro essenza, si caratterizzano per una forte modernità e innovazione, anche se recano un evidente legame con la tradizione della pittura, in cui ogni linea, ogni pennellata di luce contiene forti riferimenti alla stagione delle grandi “impressioni”.
Nella mostra romana, Davenport, oltre ai suoi classici Puddle Paintings, ha realizzato un interessante wall drawing in cui sintetizza i colori e li ripropone, con la proverbiale abilità espressiva, nel contesto di un site specific.
Le sue elaborazioni pittoriche sono sempre in continua ricerca di specifiche tecniche che esaltino il senso ultimo delle vibrazioni, delle emozioni, del rapporto con la luce e il movimento come misura del sé contemporaneo.
Afferma, infatti, che “ è importante mettere continuamente in discussione anche le certezze del passato ” .
Per creare le sue opere utilizza materiali e strumenti di ricerca alternativi, apparentemente improbabili, ma che gli permettano di pensare in modo nuovo alla sua stessa creatività:
Siringhe, ventilatori, annaffiatoi, spille e chiodi.
E’ una continua lotta con il mezzo e il materiale, chiedendosi costantemente: “cosa succederebbe se creassi un dipinto senza usare il pennello? E se invece di utilizzare la tela, scegliessi qualcosa di diverso? Fino a quanto si può sperimentare?”.
Il suo atteggiamento è mutuato dalla convinzione che ogni espressione artistica contemporanea debba dare significato di sé soprattutto attraverso un uso appropriato della ricerca dei linguaggi che sappia meglio identificare il bisogno di rappresentare l’identità dell’artista.
Egli afferma che il suo modo di operare è molto vicino a quello dello scultore e del performer,
nel momento in cui sceglie il materiale su cui far scorrere, colare il colore. Le piastre metalliche, normalmente usate come supporto, sono superfici che devono permettere un dinamico movimento finale del colore e, allo stesso tempo, devono coagulare la consistenza cromatica, la vibrazione e la profondità della luce.
Osservando le sue opere non possiamo pensare che tutto poggi sulla tecnica e sull’estetica visiva; in realtà, la sua fonte ispirativa principale proviene dallo studio di complessi elementi visivi, come gli affreschi della tradizione medievale italiana e una continua osservazione dei simboli della cultura popolare.
Sono fonti irrinunciabili a cui attinge a piene mani, per sua esplicita ammissione, colpito sempre dall’immediatezza espressiva dei dipinti su pareti dei grandi maestri, come il Giotto della Cappella degli Scrovegni di Padova.
Il suo è sempre un lavoro che si sviluppa attraverso la dialettica visiva di forze controllate (lo scorrere manuale del pennello o della siringa) e l’espressione dell’azione incontrollata
( ventilatore o innaffiatoio ).
La presenza autorevole di Ian Davenport nello scenario internazionale del sistema dell’arte è un altissimo esempio che dimostra come la pittura sia un linguaggio complesso e affascinante che dimostra come sia assurdo oggi parlare della sua “morte”.
di Pino Bonanno
Ian Davenport: La gravità del colore